Viaggio alle sorgenti del Nilo

... il quale Nilo nasce dal fiume Giordano, che esce dal Paradiso terrestre...

– L. Frescobaldi e S. Sigoli, Viaggi in Terra Santa

Vitali Antonio

Nasce per parto podalico il 2 luglio 1932 nella clinica Regina Elena di Trento. Sua madre gli ricorderà spesso, nel corso degli anni, i dolori che le ha provocato una nascita simile. Ma solo a cinquantun anni capirà quanto quella anomalia abbia influito sulla sua crescita. Glielo ripete, mentre lo tiene immerso nell’acqua calda della vasca, il 2 luglio 1983, la sua amica di Merano, che gli ha chiesto di rivivere l’evento. La sua mano, artigliandogli la nuca, gli affonda la testa. Picchiando con il mento contro la maiolica, lui riesce a riaffiorare. Ma di nuovo lei nuda, le mammelle enormi, incombendo con il corpo ridondante sugli spruzzi, preme le mani sopra le sue spalle e lo sospinge contro il fondo. Bolle d’aria gorgogliano vicino agli occhi dilatati. Sente che la presa si allenta e, sollevando la testa, emerge per respirare, mentre lei gli grida: «Stai nascendo! Devi vivere!» Le onde escono dalla vasca, lei perde improvvisamente l’equilibrio e precipita sulla schiena. Allora, issandosi su di lui, gli rituffa la testa che si dibatte. Questa volta l’acqua gli è entrata nella bocca spalancata, il respiro gli rantola in gola, le vene si gonfiano. Puntando le mani e i piedi si rovescia su un fianco, trascinandola a sua volta sott’acqua, ma con un colpo potente delle anche lei lo scaglia contro la parete liscia e cerca di riaffondarlo mentre si afferra, ansimante, al bordo della vasca. «Non sei ancora nato!» gli grida. «Sì!» geme lui. «Lasciami respirare!» «No, tu non riesci a respirare, perché i piedi sono usciti, ma la testa è ancora dentro, capisci?» «Sì» mormora lui, mentre pensa: “Che cosa sto facendo?” «Ti senti strozzare proprio quando stai per uscire» continua lei, ripiombandogli sulla schiena con la sua massa carnosa. «Senti che ti sto uccidendo. E che cosa vorresti fare?» «Ucciderti!» grida lui. «Ecco, tesoro, è questo che volevo farti dire!» Si aggrappa alle sue spalle, ma lui non lascia la presa del bordo. «Tu volevi uccidermi solo per salvarti. Non hai colpa.» «No!» esclama, chiudendo gli occhi. «Non ho nessuna colpa.» «E neanche lei ha colpa, lei voleva solo farti vivere e tu non l’hai uccisa. Avete vinto tutti e due.» «Sì.» «Ripetilo con me» insiste lei. «Abbiamo vinto tutti e due.» «Sì.» Cerca piano di divincolarsi da quella carne molle e calda. «Abbiamo vinto tutti e due.» Lascia penzolare la testa sul tappeto di gomma. Alle sue spalle un tonfo accompagnato dagli spruzzi, si è girata sulla schiena, slitta sul fondo. Ne approfitta per scavalcare l’orlo della vasca e rotolare sul pavimento. «Ma che cosa fai?» «Non abbiamo finito?» le chiede rialzandosi a fatica e allargando le palme sulle piastrelle. «Sì, se sei nato senza colpa. Dillo.» «Sì, sono nato senza colpa» le dice, sdrucciolando lungo la parete e scivolando adagio sul pavimento.

Quando esce dal condominio, due ore dopo, si sente più leggero. In treno, premendo la fronte contro il finestrino, nella luce dorata che rischiara montagne, fiumi e campi, prova una commozione inesplicabile. La mattina del 12 luglio 1983, salendo con l’ascensore esterno lungo il grattacielo di vetro e di alluminio fino al piano della sua ditta, per la prima volta non avverte sintomi di vertigine, ma una ebbrezza euforica. «Non c’è bisogno di una causa» gli spiega la sua amica al telefono, la sera tardi, mentre lui vede sua moglie, nel salotto in fondo, seguire alla televisione una partita di tennis. «Ti stai liberando di un delitto che non hai commesso. Tu non hai ucciso tua madre.» «Sta vincendo Lendl!» gli grida sua moglie, senza voltarsi, le mani aggrappate ai braccioli. «Non sai che cosa ti perdi.» «Un momento, sono al telefono!» esclama lui, coprendo la cornetta con la mano sinistra. Poi la stacca e dice alla sua amica con voce più bassa: «Questo l’ho sempre saputo.» «Lo dici ora, da adulto, ma allora non lo sapevi. Allora c’era lei che voleva ucciderti e tu che, per impedirglielo, volevi fare altrettanto. Questo il tuo nemico non te l’ha mai perdonato.» «Quale nemico?» le chiede. «Ma che cosa stai facendo?» gli grida ancora sua moglie dal salotto. «Sono al telefono, hai capito?» le risponde. Poi stacca la mano sinistra dalla cornetta e mormora: «Scusami. Ti ho chiesto quale nemico.» «Tu» gli risponde lei. «Cioè il bambino che è in te e che cerca di punirti.» Lui vede un bambino minuscolo dentro di sé. «E mia madre che cosa c’entra?» «Tua madre si è sempre alleata con il bambino per impedirti di amare un’altra donna.» Dal salotto arriva una esclamazione delusa: «Hai perso il meglio!» Lui socchiude gli occhi: «E chi avrei dovuto amare?» «Me, per esempio» gli risponde lei. Lui è invaso da uno sfinimento in tutto il corpo. «Ho capito» dice.

Nove mesi dopo, durante un temporale, mentre osserva dalla finestra un uomo che attraversa l’asfalto di corsa, riparandosi goffamente con una cartella, decide di dare le dimissioni a sette anni dalla pensione. Dice a sua moglie stupefatta, che sta stirando in cucina, davanti alla finestra: «Vorrei vivere.» «Ma perché, finora che cosa hai fatto?» trova la forza di chiedergli. «Sopravvivere» risponde. Sua moglie posa il ferro da stiro sulla piastra e si siede. «Però non parlarmi più del tuo parto» dice. «Ti scongiuro.» Decide di non parlare più del suo parto. Ma il suo pensiero vi torna come a una gioia radiante.

Il 27 settembre 1984, camminando nel crepuscolo alla periferia di Merano, tra villette circondate dagli alberi a poca distanza dalla corrente del Passirio, si alza sulle punte dei piedi, come faceva da ragazzo, per toccare un ramo. Non sa se è vero quello che la sua amica, sdraiata vicino a lui sul copriletto, gli ha detto due ore prima: che ha sposato la donna che piaceva non a lui, ma a sua madre, perché solo così poteva rimanere fedele. «A chi?» aveva chiesto. «A tua madre.» Né sa se ha scelto legge, anziché geologia, per espiare il delitto della nascita. Per la stessa ragione eviterebbe il sole – gli effetti sulla epidermide che lui chiama eritemi – perché associato alla verità e alla vita già dagli Egizi. E neanche sapeva – mentre la sua amica gli parlava con voce monotona, come se recitasse una preghiera, facendolo cadere in un deliquio intermittente – se tutto questo era vero oppure falso. Ma non gli importava più di saperlo. Capiva che se accettava se stesso avrebbe accettato il sole. E quel giorno aveva rinunciato a calcolare, mentre camminava sotto la volta verde dei viali, le distanze dai punti invisibili che fissava sul percorso.

Sei mesi più tardi, al primo sciogliersi delle nevi, insiste per andare a passeggiare sulle Dolomiti di Gardena e di Fassa. Quel fine settimana l’amica è via con amici, così si porta dietro la moglie. «Voglio stare in mezzo alle rocce» le dice, con trasporto. Indossano giacche pesanti e scarponi da montagna, con il rivestimento in pelle e la suola di gomma. Mentre avanzano lungo il letto del fiume nella valle, ammirando i picchi sublimi, non riesce a mantenere fede alla promessa, e torna sulla scena del parto. «Non riuscivo a respirare, capisci?» le chiede retoricamente, per l’ennesima volta. «E per tutta la vita ho sentito come se mi mancasse il respiro». La moglie ha smesso di ascoltarlo, e guarda dritta davanti a sé, prestando attenzione a dove mette i piedi. In silenzio, lui ripensa alla madre che gli telefonava ogni martedì per chiedere come proseguivano gli studi, ai tempi della facoltà di legge, e a lui che le rispondeva a monosillabi. Sente l’improvviso impulso di gridare e ascoltare l’eco della sua voce tornare indietro. La moglie preferisce gli urli di sfogo alle conversazioni sulle circostanze della sua nascita, e si unisce a lui. Il sole tramonta presto dietro i monti, e le vette appuntite sembrano piramidi nere stagliate contro il cielo ancora limpido. Al ritorno, in auto, tiene il finestrino aperto anche se fuori fa molto freddo, e prende grandi boccate d’aria che gli riempiono i polmoni.

«Mi sento rinascere» dice il 7 maggio 1985 al commendator Mambriani, l’ufficio in penombra, nel tardo pomeriggio in cui viene convocato per spiegare le dimissioni. «Non so se è la causa o l’effetto della mia decisione.» «Ma non pensa al futuro?» gli chiede, austero e grave, il commendator Mambriani, immobile nella poltrona come un monarca assiro. «Pensare al futuro è sempre stato il mio modo di punirmi. Ora basta» risponde.

Decide di impiegare parte della liquidazione per una crociera sul Nilo. La sogna da molti anni, da quando ha letto che, in altri secoli, risalirlo significava un viaggio non solo al centro del mondo, ma dell’uomo. Cerca di spiegare a sua moglie perché vuole farlo da solo. «Ho bisogno di ritrovarmi» le dice. «Tu devi curarti» gli risponde lei. L’amica, anche se turbata, approva la sua scelta. «Potevamo farlo assieme» aggiunge, con le lacrime agli occhi. «Ma sarà per un’altra volta.» Il 27 dicembre 1985 si imbarca ad Asyu’t, più di 300 chilometri a sud del Cairo, sul battello Osiride. Sdraiato sul letto, emozionato, estatico, vede dalla cabina le rive scivolare con le palme, la linea rossa dei monti più lontani, i bambini che nuotano tra le canne, i cammelli e gli autocarri nella polvere. In sala da pranzo, sotto i bassi soffitti di un rosso damascato, si sorprende a fissare con desiderio una ragazza francese, bruna, ridente, una grazia maliziosa nello sguardo. Pensa con ansia placata alle vite che non si vivono. Il 2 gennaio 1986 sbarca a Luxor. Manda alla sua amica una cartolina con la fotografia di un faraone di pietra adagiato sulla sabbia e queste parole: “Non ho più paura del sole”. Si aggira, tra obelischi e colonne, stordito di luce. Al tramonto, mentre sale verso le porte del Tempio le statue gigantesche a presidio della città sacra si oscurano in un cielo che rotea in alto. Alcuni uomini tengono lontani i curiosi che si affacciano su di lui. Un altro gli preme sulla fronte un fazzoletto bagnato. E mentre le palpebre si chiudono sull’estremo dolore del suo petto, vede all’orizzonte un sole enorme, rosso, che si inabissa con lui.

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