Chicago, un sole, una nuvola

Mi ricordo la sua massa di capelli castani e il loro odore, un odore che non avevo mai sentito prima, o a cui forse non avevo mai prestato attenzione.

Mi ricordo il leggero altipiano che il passaporto formava nella tasca dei jeans, quella davanti a destra, e la paura di avere spiegazzato troppo il biglietto, e che alla fine non mi avrebbero fatto salire.

Mi ricordo un altro odore, stavolta pungente e pervasivo, che m’investì mentre serpeggiavo lungo il percorso che mi era stato imposto, e alla mia destra c’erano orologi e occhiali da sole, e alla mia sinistra bottiglie di whisky e boccette di profumo, e poi pubblicità di uomini a petto nudo e di donne bellissime.

Mi ricordo che non sapevamo bene che lingua parlare.

Mi ricordo la sveglia la mattina presto, i miei occhi appiccicati, la luce calda che filtrava dalle persiane chiuse.

Mi ricordo le mie mani sudate, e la mia voce che mi ripeteva che l’avevo già fatto, un volo da solo, e che ero grande abbastanza.

Mi ricordo che mio padre non aveva capito nulla, e che Juliette invece aveva capito tutto, anche se non era mia madre.

Mi ricordo che avevo indosso le mie Converse nere, le scarpe che ho amato più di qualsiasi altro paio di scarpe.

Mi ricordo il codice alfanumerico C27, stampato grande e rotondo, bianco su sfondo nero – la freccia che rispondeva a tutte le mie domande.

Mi ricordo che ci parlavamo a gesti.

Mi ricordo lo schermo al di sopra del boarding desk, la scritta “Chicago”, un sole, una nuvola.

Mi ricordo i triangolini grigi gialli bianchi del pavimento, il rumore attutito delle ruotine del trolley su quel piano gommoso ma rigido.

Mi ricordo l’arco rettangolare e misterioso, che ci passi sotto e fa un bip, oppure non fa nulla, e il timore che avevo e che ho sempre avuto e che penso tutti abbiano, il timore del trapasso, di essere scoperto, di avere un fucile nascosto nell’astuccio senza saperlo, o un coltello nella tasca laterale dello zaino.

Mi ricordo che, appena prima di salutarci, papà mi disse: “I giochi di squadra sono importanti, ricordatelo, ok?”. Sorrido, pensando a tutti i suoi maldestri tentativi di avere un’influenza sulla mia vita, di porre rimedio al fatto che viveva in un altro continente.

Mi ricordo il salto che fece il mio cuore quando la vidi.

Mi ricordo che provai a immaginarmi la fila dall’alto, come fossi un uccello che osserva un serpente attorcigliato ma mobile, fatto da persone che fluiscono, destra, poi torna indietro, sinistra, poi cammina ancora un po’, gira di 180 gradi, poi cammina ancora, e da lassù vedevo i capelli sulle teste di tutti, e gli zaini, e le scarpe.

Mi ricordo che dissi a mio padre: “È stata l’estate più bella della mia vita” e che lui ne fu contento, anche se non aveva capito nulla: forse pensava alle partite di calcio che avevamo giocato in spiaggia.

Mi ricordo la sua maglietta gialla e tutti i braccialetti che portava.

Mi ricordo che mi misi ad ascoltare gli annunci degli altoparlanti, e cominciai a fare un gioco. Dovevo indovinare, il più velocemente possibile, se la voce che parlava era quella registrata di un robot oppure quella di una persona vera, viva. A volte era facile: “Si ricorda ai passeggeri…” ma altre volte la voce della donna che parlava (era sempre una donna) era talmente vuota di umanità che ci si metteva un po’.

Mi ricordo, solo sfocatamente, la mano di mio padre che sventolava, e gli occhi tristi che mi seguivano da lontano mentre compivo i miei cinque o sei dietrofront, e che poi sono scoparsi dietro una porta automatica.

Mi ricordo i denti bianchi e perfetti della hostess quando, sorridendo, mi disse che non dovevo preoccuparmi di nulla, che lei sarebbe stata con me durante tutto il volo.

Mi ricordo i suoi denti bianchi, e la paura che ci scoprissero nella sua stanza, mentre davo e ricevevo i miei primi baci.

Mi ricordo le file di sedie, il rivestimento in pelle grigia, e che seduto su una di quelle i miei piedi non toccavano ancora terra, e questo mi indispettì.

Mi ricordo che non volevo tornare a casa, che sarei voluto rimanere in Francia per sempre.

Mi ricordo un altro gioco che feci. Scommettevo su quali voli sarebbero partiti in ritardo. Fissavo gli schermi per interi minuti, puntando ora su questo, ora su quel volo: compagnia British Airways destinazione London Heathrow numero del volo BA508 orario previsto 11.45 orario effettivo... e un numero inaspettato di volte, mi ricordo, ci ho azzeccato.

Mi ricordo che allora non avevo paura di volare.

Mi ricordo, e ancora adesso sussulto, la sua mano. La mano di Béatrice che si alza timidamente a salutarmi, per l’ultima volta, e la curva del suo sorriso, che era l’ultimo, e i lineamenti del suo viso, ancora così morbidi. Mi ricordo la sensazione del mio braccio che cerca di ricambiare il saluto senza farsi notare da mio padre, mentre il mio cuore affonda in un lago di euforia venata d’immensa tristezza.

Mi ricordo il bruciore degli occhi, e le mie guance umide di lacrime.

Mi ricordo l’abbraccio di mia madre all’arrivo, la mia apatia totale, il piattume dei miei sentimenti stremati da undici ore di volo.

Mi ricordo che non la rividi mai più, ma penso ancora a lei ogni volta che m’accodo a un serpente di persone in un aeroporto, e getto uno sguardo furtivo alle mie spalle, aspettandomi forse di vedere una mano pronta a salutarmi, una maglietta gialla, o una massa di capelli castani.

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